Lorenzo Applauso|È uno dei più grandi paradossi del nostro tempo: si spendono soldi pubblici per costruire strutture sportive moderne, accoglienti, persino belle da vedere e poi le si chiude al pubblico. Non per ragioni di sicurezza straordinaria, né per eventi imprevedibili. No, semplicemente perché il collaudo non arriva mai. Intanto si continua a giocare ma senza pubblico. L’assurdo prende forma, si concretizza in un fenomeno che ha ormai assunto le proporzioni del ridicolo. Succede nel settore pubblico, ovviamente. Dove l’inizio dei lavori è spesso celebrato come un evento da taglio del nastro, ma la fine — quella vera, quella che rende un’opera utilizzabile — diventa un miraggio. Un tormentone burocratico. Un incubo amministrativo. Nel cuore dell’Alto Casertano, l’emblema di questo teatrino è servito: tre stadi nuovi di zecca, con terreno sintetico di ultima generazione, tribune pronte ad accogliere il tifo locale e un colpo d’occhio degno di palcoscenici superiori. Tre gioiellini. Ma completamente inutili per il pubblico. Perché? Manca l’agibilità. Motivazioni? Si va dal tragicomico al surreale. A volte si tratta di piccoli problemi alla tribuna, altre volte di errori progettuali così grossolani da sembrare barzellette: scale con gradini meno profondi di una scarpa. Cose da cabaret. A Sant’Angelo d’Alife, ad esempio, l’impianto sportivo è pronto, ma il pubblico non può entrare. Il sindaco Caporaso, interpellato di recente, ha garantito che la commissione per il pubblico spettacolo farà un sopralluogo “a breve”. Ma si sa: nel linguaggio della burocrazia italiana, “a breve” può significare mesi, anni, o anche mai. E nel frattempo le strutture invecchiano. E il calcio locale muore. Ad Alife, la storia è identica: uno stadio pronto, ma inaccessibile. Nessuna soluzione. Ogni volta che si chiedono chiarimenti, la risposta è sempre la stessa: “Tutto è in via di risoluzione”. Ma nulla si risolve mai. E poi c’è Pietramelara. Situazione fotocopia. Persino il presidente della società Aurora è intervenuto con fondi propri per sistemare le criticità. Ma nulla da fare: la squadra gioca ancora a porte chiuse. Chi paga tutto questo? Le società sportive locali, certo. Ma soprattutto i tifosi, le famiglie, i ragazzi che dovrebbero vivere lo sport come momento di socialità e crescita. Invece no: campi deserti, partite in silenzio, tifoserie allontanate. Qualcuno dirà che gli incassi di una piccola squadra dilettantistica non sono determinanti. Ma per chi fa sport con passione e fatica, perdere anche quei pochi euro a fine campionato può significare la differenza tra iscriversi o no al prossimo torneo. E così, mentre si parla di sport come veicolo educativo, sociale, aggregativo, si continua a costruire stadi vietati al pubblico.Sembra una barzelletta. Invece è una fotografia reale, scandalosa e inaccettabile del nostro modo di gestire il bene pubblico. Nel frattempo, in attesa di agibilità e collaudi, possiamo solo fare un applauso. Ma da casa. Perché allo stadio non si entra.